Sabato 3 agosto – Il primo re

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Italia, Belgio 2018
Regia Matteo Rovere
Sceneggiatura Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere
con
Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione
Fotografia Daniele Ciprì
Montaggio Gianni Vezzosi
Scenografia Tonino Zera
Costumi Valentina Taviani
Musica Andrea Farri
Durata 127 minuti
Distribuzione 01 Distribution

Ospite della serata
l’attore Alessandro Borghi

Trama

I fratelli Romolo e Remo, soli e in grado di contare l’uno nella forza dell’altro, si muovono in un mondo remoto e ostile sfidando il volere irriducibile degli Dei. Dal sangue versato nascerà una città, Roma, all’origine del più grande impero della Storia. Il loro è un legame saldo, intrepido, destinato ad alimentare la leggenda.

Un incipit da kolossal, estremamente verosimile, totalizzante. L’atteso film da quasi nove milioni di euro di budget, diretto da un coraggioso giovane innovatore come Matteo Rovere (Veloce come il vento), ha una partenza sprint da impallidire. Altro cinema rispetto a tinelli e commedie della tradizione, altra roba rispetto ai fellinismi d’esportazione per gli Oscar. La voglia di stupire e sconvolgere, di mostrarsi americani a Roma, è vulgata industriale nuova e stimolante per tutti. Insomma visivamente il risultato è notevole. Una ri-creazione verista, tattile, violenta di un’epoca storica che nel passato, magari di qualche peplum d’annata, si era contraddistinta giusto per sandalini comodi e pugnali di plastica con la partecipazione naif delle star di Hollywood. Affascinante è anche l’immersione nella foresta, tutta luci naturali (fotografia di Daniele Ciprì) per il manipolo in fuga.

Il primo re, oltre al discorso fondativo della leggenda della nascita di Roma, curioso espediente drammaturgico ai confini del fantasy più che dalla storia al cinema, prova a fondare anche un linguaggio autonomo rispetto al milieu linguistico dell’industria del cinema italiano. Il proto latino con relativi sottotitoli sono una scelta che ha più di un debito con altri prodotti del settore (vedi il maya yucateco in Apocalypto o l’aramaico de La Passione di Cristo) ma il risultato di straniamento culturale vale l’azzardo. Stesso discorso per questo necessario scioglimento delle acque nell’ambito dell’action adventure.

Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano